di Luca Proietti Scorsoni
Il valzer delle prime volte può essere una frase evocativa di uno stile kunderiano, oppure
una chiave grammaticale per tentare di comprendere quanto accaduto ad Orvieto. Già, un
valzer ma anche i corsi e i ricorsi, per dirla come Vico, che permettono, se non di afferrare
pienamente la logica del tutto, almeno di inquadrare nel loro giusto contesto gli esiti elettorali
ancora freschi di dati, percentuali, lacrime e sorrisi. Orvieto, la sua storia, politica e non, vive
di prime volte connotate da una forte capacità ispiratrice.

Al netto di quanto è stato scritto finora è la prima volta che la Rupe vede riconfermare sul proprio scranno un primo cittadino di estrazione liberale, la prima volta che questo si presenta con il volto di una donna e la prima volta che questa riconferma avviene dopo il secondo ballottaggio consecutivo. E a
voler essere capziosi tale trionfo di inediti politici non sarebbe avvenuto se a dare il là alla
continuità del governo locale non ci fosse stata l’altra “prima volta” della stessa donna di
centrodestra. La sua prima elezione. Ispirata dalla prima volta di Concina – esperienza
fugace quanto si vuole ma rivelatasi una sorta di esperimento politico i cui esiti permisero di
gettare le basi di un percorso (la strada giusta) lungo il quale il futuro iniziò ad incamminarsi
sin d’allora – e che assunse ben presto la fisionomia di un progetto politico-culturale serio,
basato sul binomio formato da visione e manutenzione. Il domani e il presente. La
prospettiva futura e la gestione dell’ordinario. Il sogno da incarnare e la realtà che per molti,
prima di quel frangente storico, risultava essere solo un sogno.
D’altronde Orvieto è stata teatro di suggestioni profondissime a loro volta foriere di capolavori immortali. Ne sa qualcosa un certo Buonarroti il quale, secondo la leggenda, in attesa di rendere assoluto lo
splendore impresso nella Cappella Sistina venne folgorato dai tratteggi virtuosi vergati per
mano del Signorelli. E ne trasse, per l’appunto, ispirazione. Ma nel caso di Roberta Tardani
l’intuizione per costruire il secondo mandato non è avvenuta in un frammento di tempo,
bensì è maturata lungo il primo lustro di amministrazione. Il buon governo, nient’altro. Inteso
come capacità di risolvere problemi e armonizzare le molteplici esigenze sociali di una
comunità diffusa tra la Rupe e l’infinita bellezza che circonda Orvieto come fa il mare con
un’isola, per giunta imponente ed eterna. Inoltre, la capacità di allestire un’impalcatura
partitica articolata ma stabile, tanto da far pensare ad un’operazione di stampo fusionista
piuttosto che ad un sistema di semplici alleanze elettorali – parafrasando un celebre spot
potremmo dire: le persone oltre le sigle – è stato il miglior viatico per la realizzazione di una
strategia programmatica netta e chiara. Il successo al secondo turno di lunedì, nonostante
l’indiscussa capacità del fronte progressista di recuperare consensi, non rappresenta di
certo una vittoria mutilata. Tutt’altro. Lo scenario avvalora la tesi dell’impresa storica.
Perché non rendersi conto che la stagione della Lega al 40% ormai debba essere derubricata ai
fenomeni “d’antan” e che anche i partiti ora in voga non hanno la stessa capacità propulsiva
del Giussano del tempo, è cosa cattiva e ingiusta per un sindaco sapiente e lungimirante.
Perché dimenticare che l’Umbria ed Orvieto hanno avuto il loro vissuto di sinistra, come dire,
“tout-court”, significa ignorare il territorio che si ha il privilegio di servire. Un vissuto peraltro
modellato mediante apparati clientelari, tramite la capacità pervasiva, oltre che capillare, di
rintracciare un consenso strutturale e anche in virtù di una “forma mentis” intellettuale che,
via via, si è sedimentata nel senso comune a svantaggio del buon senso tipico del
pragmatismo liberale. E poi l’atavica tendenza alla diminuzione dell’affluenza durante il
ballottaggio da parte dell’elettorato cosiddetto “moderato” e infine quella fisiologica, benché
malsana, attitudine da parte dello stesso elettorato a riporre i remi in barca nel momento in
cui la brezza diviene favorevole e le vele iniziano a spiegarsi. È quindi una vittoria ottenuta
mediante una discreta manciata di “nonostante”, una congiunzione avversativa che, ad
esempio, ha preso le forme di una realtà mediatica tendenzialmente poco propensa ad
accogliere un pluralismo fattivo e non legato ad una semplice ipotesi di scuola.
Abbiamo letto, mi si consenta, una sfilza di endorsement i cui autori si sono presi oggettivamente un
po’ troppo sul serio. Sostegni per le cause più varie, ivi compresa quella relativa ad una
certa vicinanza ideale tra il fronte progressista e la questione palestinese. Si, la questione
palestinese. Esatto, palestinese. Il tutto per vincere ad Orvieto. Terni. Umbria. Che dire:
forse il dramma reale che stanno vivendo quelle popolazioni così martoriate avrebbe dovuto
imporre una maggiore cautela nel mescere i vari e i derivati della geopolitica con le
dinamiche di un’elezione comunale. Il dolore profondo di una terra sanguinante posto su un
piano manicheo del tipo: vota lui o vota lei. Insomma, per utilizzare un parossismo caro al
barbuto di Treviri, la propensione a confondere la tragedia con la farsa. Ed il tutto facendo
passare l’idea sottesa che chi è attualmente alla guida di Orvieto non abbia la capacità di
saper comprendere la complessità di una vicenda assai intricata, quale quella mediorientale,
che sta disseminando tanti, troppi, lutti. Infine una postilla, una di quelle che servono giusto
a mettere un punto per poi voltare pagina.
Nelle ore conclusive della campagna elettorale, sulle chat degli addetti ai lavori, circolava uno di quei post preconfezionati dove viene spiattellato un concetto senza una benché minima argomentazione. In questo caso si trattava di un aforisma stante a sottolineare uno stereotipo di quelli davvero stantii, relativi
alla presunta superiorità culturale della sinistra a fronte di una destra composta da soggetti
brutti, sporchi, cattivi e soprattutto incolti. Chi scrive non crede affatto che tale tipo di
messaggio sia stato diffuso da esponenti del fronte progressista. D’accordo, magari da
qualche buon tempone che, così facendo, pensava bene di aiutare la propria causa.
Ebbene, senza dilungarmi in profluvi lessicali su quanto sia denso il catalogo delle letture
“collocate” a destra (sempre che la cultura si possa facilmente localizzare su coordinate
politiche) vorrei ricordare, con il sorriso, una celebre massima di Ronald Reagan. Il
presidente americano, infatti, amava ripetere che in politica ci sono due categorie di
persone: coloro che hanno letto Marx e sono diventati comunisti e coloro che lo hanno
compreso e, per questo, sono diventati liberali.
Chissà, forse per qualcuno ci sarà una “prima volta” (avete contato fin qui quante prime volte?) grazie alle quale si renderà conto che i liberali e i conservatori non sono di certo figli di un dio minore.